[STAR WARS] Take my hand and guide me
Jan. 26th, 2018 10:09 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Personaggi: Baze, Chirrut
Warning: kid!fic, menzioni di bullismo
Rating: safe
Parole: 9749
In breve: Baze è convinto che il ragazzino cieco che lo segue ovunque non sia davvero cieco, e si stia solo prendendo gioco di lui.
Note: scritta per il cow-t 8, seconda settimana, missione 2 (prompt "Inganno")
Baze non riesce davvero a concentrarsi. Gli capita da qualche giorno, da quando lo strano bambino dai capelli scuri e arruffati e dai vestiti sporchi ha iniziato a seguirlo.
All'inizio era stato facile non dargli peso. Era comparso una mattina come tante altre, senza annunciarsi né farsi notare. Per lo più si limitava a gironzolare per il quartiere, con il capo chino ed il suo inseparabile bastone a fargli da guida, picchiettato sulla strada ricoperta di deserto davanti ai suoi piedi, da destra a sinistra e poi da sinistra a destra, ad ogni passo.
Baze non ha avuto bisogno di chiedere per capire che il bambino era cieco; quel gesto l'aveva visto fare qualche volta dai mendicanti che ti rincorrono per chiedere l'elemosina ai lati delle strade che si aggrovigliano per il quartiere del mercato.
Questo bambino, però, era diverso. La sua casacca era ingrigita dalla polvere e sgualcita attorno alle caviglie, e aveva certamente l'aria di non nutrirsi a sufficienza, eppure non domandava monete né cibo ai passanti, e anzi si scusava profusamente chinando più volte il capo quando capitava che uno di loro, sovrappensiero o troppo indaffarato in faccende più impellenti per accorgersi di un corpicino così piccolo, gli finisse addosso rischiando di farlo ruzzolare a terra.
Baze l'aveva intravisto ogni tanto fermarsi nei pressi di qualche bancarella e rizzare il capo come richiamato da qualcosa - il profumo del cibo, probabilmente, o gli schiamazzi dei commercianti che cercavano di ingraziarsi qualche cliente in più rubandolo alla concorrenza.
La maggior parte delle volte si limitava ad annusare l'aria prima di passare oltre, ma c'erano giorni in cui, dopo attimi di esitazione, si faceva timidamente vicino ad una delle bancarelle ed allungava un paio di monete raccimolate dalla tasca della casacca, quindi si trascinava a fatica fuori dalla folla e si issava su un muretto di pietra, le gambe penzolanti nel vuoto, e divorava la sua pietanza in silenzio, tutto solo, tenendone sempre una porzione da parte da portare via.
Altri giorni Baze lo vedeva spuntare nella piazzetta su cui affaccia la bottega di suo padre, quindi sedersi a lato della strada e contemplare qualcosa, con gli occhi sbiaditi e spenti eppure sempre proiettati verso il mondo di fuori, come se in fondo fosse in grado di scrutarlo davvero e si stesse solo prendendo gioco di tutti gli altri.
Per qualche motivo, Baze non riesce a scrollarsi di dosso quest'ultimo presentimento. Se lo porta dietro da giorni interi, come fosse un affronto mosso a lui personalmente - come se avesse davvero senso arrabbiarsi per via di un bambino senza occhi e senza nome, che potrebbe persino sparire da un giorno all'altro, come i tanti volti nuovi che passano e poi svaniscono fra le strade della Città Sacra, attirati qui da qualcosa di più grande e importante di un inutile figlio di artigiani nato senza gloria nei sobborghi più umili di NiJedha.
Eppure Baze gliel'ha letto in faccia, sul viso sciupato e i vestiti malmessi, che questo bambino è qui per restare, esattamente come lui.
Qualche pomeriggio fa, mentre stava giocando alla guerra con gli altri ragazzi del quartiere, armato di scudi ricavati da vecchie lamiere e fucili ricalcati su pezzi guasti di motore o attrezzi da lavoro presi in prestito da suo padre, aveva deciso di confidarlo anche ai suoi amici. Li aveva richiamati in cerchio attorno a sé, bisbigliando come si fa con le cose segrete, e aveva indicato il bambino incriminato, che se ne stava per conto suo a far penzolare le gambe sottili dal solito muretto di pietra, lanciando gusci di conchiglie sulla sabbia rossa senza riuscire a seguirne con lo sguardo la parabola di caduta. Aveva svelato loro di sentirsi seguito, e l'aveva fatto credendoci davvero. Forse è per questo che quando gli altri, compreso che si stava riferendo proprio al ragazzino cieco in fondo alla strada, si erano voltati verso di lui piegati in due da risate di scherno, Baze l'aveva presa piuttosto male, e piuttosto sul personale - di nuovo.
Se n'era scappato adirato dopo aver lasciato cadere sulla sabbia lo scudo e la pistola finti con un gesto al limite dello stizzito, urlando loro che non avevano capito un tubo.
"Ma Baze, cosa c'è da capire? Come fa a seguirti se non ci vede?" Le loro voci avevano tentato di inseguirlo, mischiate fra le risate e l'ilarità generale che il suo sospetto ormai reso pubblico aveva generato, e una volta tornato a casa aveva deciso, pieno di rabbia, che non avrebbe più messo piede fuori casa fino alla mattina dopo, quando il primo turno di lavoro l'avrebbe comunque costretto controvoglia.
La sera, a mente più fredda, si era convinto a parlarne con sua sorella maggiore, sicuro che almeno da lei avrebbe ottenuto comprensione. Lei, però, gli aveva restituito uno sguardo incredulo per qualche istante, come a sincerarsi che non stesse scherzando, e poi, appurato che non era quello il caso, era scoppiata in una risata sgraziata e scomposta, una delle sue solite, che ha preso da papà. "Ma tu sei tutto scemo! Ne hai di fantasia, eh," gli aveva detto mentre gli arruffava i capelli sulla fronte, facendoli scivolare sul viso a coprire un broncio gonfio e rosso di disappunto.
Gli era bastata da lezione per ripromettersi che non avrebbe più confidato alcun segreto a nessuno se non al diretto interessato, se mai le loro strade avessero dovuto incrociarsi di nuovo.
La mattina, quando Baze esce di casa per caricare la merce sul camioncino che la trasporterà al mercato centrale, del bambino non c'è traccia.
Baze si accorge di allungare distrattamente un'occhiata lungo la strada che dalla bottega s'immette sulla piazza poco distante, quella in cui ogni pomeriggio si raccolgono gli schiamazzi e le risate dei ragazzi - la stessa in cui ormai, come se fosse un'abitudine noiosa incastrata nella quotidianità, si aspetta di scorgere il ragazzino passeggiare con il bastone stretto fra le mani piccole e impolverate e lo sguardo un po' perso di chi non sa esattamente da che parte raccapezzarsi per iniziare ad esplorare il mondo.
"Che c'è, ti manca il tuo amico?" Squilla la voce di sua sorella, anticipando una manata secca che si abbatte sulla schiena di Baze facendogli ingoiare il respiro, ed una risata che la donna si trascina dietro mentre si allontana verso il mezzo di trasporto già messo in moto, da cui loro padre sta lanciando loro un'occhiata spazientita. Baze conosce bene quello sguardo, ha imparato a temerlo più di ogni altra cosa. Senza pensarci due volte allunga il passo e balza sul retro del rimorchio, picchiando due volte il pugno contro la lamiera che lo separa dall'abitacolo di guida. E' il loro segnale per la partenza.
Non gli dispiace lasciarsi casa alle spalle, perché a Baze piacciono più di tutti i giorni in cui suo padre gli permette di aiutarlo al mercato.
C'è sempre un'incredibile varietà di suoni, odori e colori che saturano gli spazi stretti e affollati fra una bancarella e l'altra, e tutto quello che Baze conosce proviene da qui: dai richiami collaudati dei rivenditori, che ormai saprebbe cantilenare a memoria, uno ad uno, come fossero scioglilingua che si ripete ogni notte prima di addormentarsi, al vociare indistinto e vivace dei clienti abituali, mescolato a quello più esotico dei viandanti che si spingono fin qui dai luoghi più remoti della galassia. Spesso questi ultimi spuntano fra le vie del mercato solo di passaggio, incuriositi, come tutti i viaggiatori, dalle più disparate stravaganze offerte dal paese ospite, diretti in realtà al Tempio dei Kyber, la meta ultima che accomuna pressoché tutti i pellegrini. A volte, però, quando si riesce ad arrangiare una lingua in comune, capita che alcuni di loro si fermino a conversare, a snocciolare le domande più strane, oppure a condividere storie da mondi che si trovano oltre il cielo, mondi che Baze non è nemmeno sicuro esistano davvero.
Questo è l'angolo di NiJedha che preferisce: agli occhi di uno come lui, che di libri non ne ha mai potuti leggere - e che a leggere non ha nemmeno mai imparato - persone del genere appaiono un po' come atlanti spalancati su un universo intero che lui non potrà mai sperare di esplorare. Nei loro occhi vede le costellazioni, i pianeti, le aeronavi di cui gli racconta suo padre, quelle che può solo accontentarsi di sbirciare al porto di attracco, come fossero giganteschi animali dormienti, ed è dei loro racconti che la sua immaginazione, ancora grezza e incredibilmente vivace come solo quella dei bambini sa essere, si nutre come fossero illustrazioni a colori su un manuale che racconta delle origini dell'universo.
Non sorprende, quindi, che a metà mattinata, quando suo padre gli dà il permesso di tornare a casa ("Hai undici anni, non sei ancora in età da lavoro, va' e divertiti come tutti i ragazzini della tua età."), lui accolga l'esortazione con un filo di disappunto, pur ben vedendosi dal questionare in alcun modo la sua decisione.
E' quasi l'ora di pranzo quando si lascia alle spalle il vociare chiassoso e familiare del quartiere commerciale per mescolarsi di nuovo alla vita ben più noiosa e discreta dei sobborghi residenziali. Il pensiero del suo inseguitore rimane sedimentato in fondo alla coscienza, vago e distante, ancora sepolto sotto il riverbero del tripudio di sensazioni che fatica sempre un po' a scrollarsi di dosso, come lo strascico di un sogno che ti rimane appiccicato addosso dopo il risveglio, anche quando non ricordi esattamente di cosa parlasse. C'è ancora nell'aria il profumo di mille spezie mescolate, il brusio di accenti intrecciati, tutti diversi eppure costretti a trovare un terreno comune per comprendersi, a gesti o a parole. Ogni volta se li porta a casa come tesori che custodisce gelosamente, ammassati in una scatola nella sua mente che può aprire ogni volta che gli viene voglia di scappare oltre le mura soffocanti di NiJedha.
Come da consuetudine negli ultimi giorni, però, la favola non dura a lungo, e la realtà torna a sgomitare in mezzo al turbinio di altri mille pensieri più gradevoli per farsi strada verso la sua coscienza.
Questa volta lo fa con prepotenza, nella forma indistinta e arruffata di un paio di gatti randagi che gli tagliano la strada ruzzolando giù da una tettoia, senza alcuna intenzione di sciogliere il nodo di zampe, code, artigli e zanne in cui sono aggrovigliati in quella che ha tutta l'aria di essere un'azzuffata per un avanzo di carne, scovato in chissà quale ammasso di rifiuti. Colto sovrappensiero, Baze sobbalza con il cuore in gola e i loro miagoli isterici a fargli vibrare i timpani, cancellando in un istante qualsiasi traccia delle voci preziose che era riuscito a trascinarsi dietro fino a qui. Lancia loro un'imprecazione imbarazzata, a denti stretti, rincorrendoli con lo sguardo mentre imboccano a canini snudati una viuzza stretta e sporca, una di quelle su cui si affacciano solamente angusti retrobottega e cucine di bettole che non consiglierebbe nemmeno al proprio peggior nemico.
E' lì, incastrato fra i muri irregolari che si stringono ai lati della strada, che il bambino sta passeggiando tutto solo, annunciato solamente da quel suo bastone che oscilla placidamente da una parte all'altra, ipnotico, tracciando parabole puntiformi sulla sabbia rossa. Oggi, però - Baze se ne accorge subito - qualcosa è fuori posto nel suo incedere, come se stesse avanzando traballante, incerto di cosa incontrerà ad ogni suo prossimo passo. Per un attimo, così spaesato e così sottile, gli sembra solamente l'ombra vacillante di una bestiola piccola e innocua, che agita la coda incerta alla ricerca di coccole ed un posto caldo dove passare la notte.
Dev'essere così, pensa Baze, che il ragazzino è solito imbrogliare il prossimo: fingendosi innocente, indifeso e debole, solo per guadagnarsi occhiate benevole e cariche di compassione, e nel mentre, magari, farsi offrire una razione in più di cibo, un favore disinteressato, un sorriso accogliente. Baze, però, non ha nessuna intenzione di lasciarsi abbindolare come tutti gli altri. Al contrario, gli si para davanti con tutto il corpo, incrocia le braccia al petto ed attende che i suoi passi piccoli e insicuri lo trascinino da lui, facendo ben attenzione a scansare la parabola del bastone quando questo arriva ad agitarglisi di fronte ai piedi.
Finisce esattamente come dovrebbe: il bambino, illuso dalla facilità con cui il suo bastone fende l'aria senza impedimenti, impatta senza grazia addosso al corpo inamovibile del più grande, fronte contro petto, innocuo quanto un soffio di vento che cerca di smuovere le fronde più spesse di una quercia.
Baze lo osserva sobbalzare e poi indietreggiare con espressione confusa, e quasi riesce a scorgere il lavorio frettoloso e spaesato della sua mente che cerca di riempire l'illogicità di quanto appena accaduto.
"Mi scusi, devo essermi distratto," si affretta a dire. La sua voce di bambino è ancora sottile, pulita e femminile, non come quella di Baze che sta già cambiando.
Non gli risponde.
"Perché mi segui?" Gli chiede invece. La voce grossa e il petto gonfio, come se l'altro potesse vederlo davvero.
Il bambino gli restituisce una sfarfallata sorpresa di ciglia.
"Io non..." esita, si ferma. Per un istante sembra pensarci su, poi scuote il capo minuto, con la fronte aggrottata. "Scusa, non credo di riconoscerti."
Baze grugnisce, riottoso.
"Non prendermi in giro. Potrai ingannare tutti gli altri ma io non sono stupido, sai? L'ho capito subito che non sei cieco davvero."
Il ragazzino stringe le labbra, concedendosi di nuovo qualche attimo per carburare le sue parole. Ha l'aria di essere più confuso di prima.
"Senti," gli dà del tu, dopo aver ascoltato la sua voce poco meno che adolescente, "Non so davvero di cosa stai parlando. Forse mi confondi con qualcun altro. Io non ho mai cercato di prendere in giro nessuno."
"Bugiardo!" la voce gli sfugge dalle labbra prima ancora che la sua mente riesca a mettere insieme l'intenzione di sbraitargliela addosso, e di certo Baze non è l'unico a sorprendersene. Il ragazzino, colto di sorpresa, indietreggia tutto quanto irrigidito, stringendosi addosso il bastone come se fosse l'unico appiglio sicuro. Eppure non trema né scappa, se ne sta lì con gli occhi pallidi proiettati nel vuoto e le labbra strette, l'espressione risoluta di chi ha preso la paura e se l'è fatta amica.
E’ proprio questo - il silenzio ostinato con cui sembra quasi sfidarlo – a far infuriare Baze più di qualunque altra offesa potrebbe arrecargli.
"Be', non parli più, eh?" Lo sbeffeggia, eppure le parole vibrano più nervose di quanto la sua immaginazione le avesse fatte suonare.
Come a dargli ragione il bambino non risponde, tutto quanto raggomitolato su se stesso da assomigliare a un riccio con gli aculei rizzati. Per qualche motivo, Baze non riesce davvero a sopportarlo. Allunga una mano, afferra il bastone stretto fra le sue nocche sbiancate e glielo strappa via con uno strattone prepotente. L'altro non ha nemmeno il tempo di opporsi - allunga le mani in avanti per rincorrere l'oggetto perduto, e quando le sue dita non riescono a raggiungerlo Baze scorge, per la prima volta, un baleno di puro terrore sporcare l'espressione sul suo viso.
Per un attimo si sente sporco, sbagliato. Capisce di averlo privato di qualcosa di importante - del perno della sua gravità. Del suo porto sicuro.
Getta il bastone a terra con un gesto stizzito, brusco, come gli stesse bruciando la pelle. "Tanto mica ti serve, bugiardo," brontola. Richiamato dal rumore, il bambino schizza a terra, sulle ginocchia, tastando affannosamente il terreno.
"Stupido!" Baze lo sente urlare di rabbia, quasi sull'orlo del pianto. Qualsiasi risposta gli muore in gola. "Dov'é? L'hai rotto?!"
E' così agitato e in preda al panico che Baze fatica a tenere gli occhi su di lui. Patetico, pensa, eppure il pensiero non lo rincuora affatto, né basta ad alleggerire il peso che si sente sul petto o il ritmo del cuore che gli batte contro la cassa toracica come se fosse impazzito.
Stringe le labbra ed i pugni lungo i fianchi.
"Non l'ho rotto," borbotta a denti stretti, dirottando lo sguardo altrove. Il bambino non sembra nemmeno sentirlo. "Non c'è bisogno di fare tutte queste scene," gli dice, mentre calcia debolmente l’asta affinché rotoli scontrandosi con la punta delle sue dita. “E’ solo uno stupido bastone.”
Non si volta nemmeno a guardarlo. Quando il bambino si stringe il bastone al petto illuminandosi di sollievo, Baze sta già scappando verso casa.
Quella stessa notte, Baze non riesce a chiudere occhio.
A tenerlo sveglio è una strana inquietudine, una sensazione che non è sicuro di saper collocare. Se la sente all'altezza del petto, come una stretta che gli aggroviglia attorno al cuore, e pure in gola, un nodo che preme ogni volta che tenta di deglutire.
Non si era mai sentito così prima d'ora. Ci sono state altre volte in cui il sonno si ostinava a non arrivare, ma in quei casi era molto più facile attribuire la colpa al troppo freddo, o al troppo caldo, oppure al morso allo stomaco che lo coglieva ogni volta che disobbediva a suo padre e questo lo cacciava a letto senza cena. Per uno stupido senso di colpa, decisamente, non gli era mai capitato di perdere il sonno.
Ha passato l'ultima mezz'ora a rigirarsi sotto tre strati di coperte ruvide e spesse, stringendo con ostinazione gli occhi nella speranza che il buio avrebbe in qualche modo conciliato il riposo - e invece, come fosse la prima e più subdola regola non scritta fra le regole non scritte del buon dormire, più si sforza di scivolare nel sonno più questo si fa sfuggevole, impossibile da afferrare.
Gli ci vuole del tempo, ma alla fine decide che non ha senso ostinarsi così.
Esalando un ultimo brontolio sommesso, soffocato sotto alle coperte, si rizza a sedere sul materasso. Allunga un'occhiata alla piccola fessura che dà sulla strada, una finestrella dai bordi irregolari, da cui si scorge solamente uno spicchio di cielo spennellato fra i tetti delle abitazione vicine. Sembra tutto quanto immobile a quest'ora della notte, come se il tempo e i rumori e qualsiasi movimento avessero deciso di sospendere le attività fino al mattino.
Baze scivola giù dal letto, lasciandosi sfuggire un sospiro stanco. I capelli, sciolti ed arruffati, gli cascano sulla fronte e ai lato del viso, arrivando a sfiorare appena le spalle. Li aggiusta con un gesto distratto della mano destra, mentre la gemella si allunga verso il piccolo ripiano accanto al letto, per afferrare la fascia rossa che sua sorella le ha cucito da quando ha deciso di lasciarsi crescere i capelli. Per tenerli a bada, gli aveva detto tutta soddisfatta di sé, che se sono come te, saranno una tragedia da domare. Baze aveva brontolato nell'accettare il suo dono, eppure da allora ne ha fatto tesoro.
Solleva la fascia sulla fronte, passandola sotto le ciocche disordinate di capelli, e ne allunga le estremità fin dietro la nuca. Senza che possa farci niente, però, gli scappa uno sbadiglio proprio mentre sta congiungendo i due lembi per fissarli in un nodo - la testa si fa leggera per un attimo, in preda ad un morso di stanchezza, e così anche le dita gli cedono appena, deboli e distratte, incartandosi in un gesto ormai divenuto automatico. Inevitabilmente, la fascia gli sfugge da una mano, scivolando leggera sugli occhi.
Ci mette un attimo a realizzare, ma per qualche istante i suoi occhi rimangono totalmente ciechi, la camera buia e nera dietro la barriera sottile del tessuto.
Il suo primo pensiero è: dev'essere così che si sente quel ragazzino.
Il secondo, prima di allontanare frettolosamente la fascia dal viso, è quanto debba essere stupido per pensare una cosa del genere: il bambino rimane un bugiardo, non importa quanto abile sia a recitare la sua parte di oppresso e insopportabilmente indifeso. Ci era quasi cascato, Baze. Si era quasi lasciato abbindolare, arrivando addirittura a perdere il sonno per una questione tanto stupida.
Sbuffa dalle narici con le labbra strette e la fronte corrucciata, lo stesso broncio che mette su ogni volta che non può affrontare a viso aperto la causa del suo fastidio, o che diventa tutto rosso di rabbia perché non riesce a prendere una decisione importante o si trova incastrato in una scelta troppo difficile.
Eppure, pensa, che male ci sarebbe a provarci per un attimo solamente...?
No. Scuote energicamente il capo, abbandonandosi a sedere sul bordo del letto.
Eppure, abbassa un'occhiata pensierosa sulla fascia posata fra le mani.
E' una cosa stupida, si dice.
Però, per un attimo solo, senza farsi vedere, non farebbe male a nessuno.
Solleva esitante il pezzo di stoffa. Dal fondo della gola vibra uno sbuffo contrariato, come se in qualche modo si sentisse in bisogno di esprimere il proprio disappunto ad una decisione che approva solo per metà - una decisione che nessun'altro gli ha imposto.
Prende un respiro, ed infine si decide a legarsi la fascia sugli occhi, limitandosi ad un nodo frettoloso e grossolano prima di rischiare di cambiare idea.
La stanza, da un momento all'altro, smette di avere forme e colori, contorni - smette di essere nient'altro che nero, tutto uguale a se stesso. Così indistinto, il mondo gli appare quasi soffocante, incastrato nello spazio inesistente sotto l'abbraccio della fascia, come se fosse limitato a quello che la superficie del suo corpo può sfiorare o sentire, eppure allo stesso tempo è divenuto vasto, infinito, spogliato di ogni contorno o punto di riferimento. Un mondo in cui ogni passo è un passo dentro all'ignoto, in cui l'orizzonte non esiste e la fine diventa un concetto piuttosto relativo.
Non fa paura - non ancora. E' solo che a Baze non era mai capitato di contemplare il buio in questo modo prima d'ora.
In preda ad una curiosità strana, elettrica, impunta le mani sul materasso e si spinge in avanti, scivolando oltre il letto. Quando i piedi atterrano sul pavimento, e lui si trova senza mezzi d'appiglio, tutto quanto assume un senso nuovo, più grave, di concretezza. Si concede un passo in avanti, traballante, e per un attimo gli sembra di perdere ogni riferimento - il davanti, il dietro, il sopra e il sotto, si fa tutto sottile, vago, disturbato dalla massa indistinta che lo abbraccia da ogni parte. Fa un altro passo, e si dimentica dov'è. Allunga una mano nel vuoto senza trovarci niente, e allora decide di avanzare, una volta, due, sembra facile in fondo, ci si abitua in fretta - o così si ritrova a pensare ingenuamente. Dopo alcuno passi le sue dita, che si agitano senza criterio nel vuoto, arrivano a sfiorare qualcosa - ha appena il tempo di registrare una superficie ruvida e dura, che tutto quanto il suo corpo reagisce con un sobbalzo inaspettato, che non riesce a controllare. Indietreggia, quasi in preda a una vertigine, con il cuore impazzito in petto. Per un istante ha davvero l'impressione di non avere più idea di dove si trova, di che direzione prendere per rischiare di scontrarsi con la stanza che lo circonda. Fa un passo incerto in avanti, ora più cauto, trascinato quasi con sospetto, e questa volta le sue dita sfiorano la stessa superficie di poco fa con più esitazione, ma anche più consapevolezza. La riconosce come il muro della sua stanza, sospira piano - non ha comunque idea di dove si trovi esattamente.
Ci prova di nuovo, questa volta camminando di lato - uno, due passi, ancora niente, allora prende fiducia e continua a muoversi mantenendosi sulla stessa direzione, in preda ad un'illusione fragile di sicurezza. Non dura a lungo: troppo concentrato sulle proprie mani, perde consapevolezza di dove si stia dirigendo il resto del corpo, degli ostacoli che rischia di incontrare. E' così, quando la punta del piede impatta contro la gamba, che Baze quasi precipita in avanti, colto alla sprovvista da un contatto del tutto inaspettato e dal dolore improvviso, penetrante, che gli attraversa tutto quanto il corpo.
Sente un urlo di sofferenza fendere l'aria prima ancora di rendersi conto che la voce è la sua - e poi si ritrova, non sa bene come, con le natiche contro il pavimento e due mani tremanti d'adrenalina puntate ben salde a terra, senza nessuna intenzione di scrollarsi da lì.
Ha ancora il respiro in gola quando, dopo pochi istanti, decide di strapparsi la fascia dal viso per lasciarla scivolare a terra, senza più curarsene - ed è più o meno il momento in cui la porta della sua stanza si spalanca con un tonfo assordante e sua sorella fa capolino con gli occhi sbarrati e un'espressione visibilmente preoccupata a solcarle il viso.
"Baze!"
I suoi occhi cercano immediatamente per tutta la stanza. Ci mettono un attimo a trovarlo seduto a terra, con gli occhi di chi ha appena visto un fantasma ed il petto ancora agitato dallo spavento e dal dolore.
"Ma che è successo? Stai bene?!"
Baze si volta, le restituisce uno sguardo di terrore, e lentamente tutto quanto inizia a prendere forma. La sua decisione stupida, il camminare alla cieca, il muro, poi l'illusione di sicurezza, il tavolo, l'urlo, sua sorella -
"Va' via!"
Le urla, paonazzo in viso. Lei sfarfalla le ciglia, colta alla sprovvista dalla reazione inattesa. Baze schizza in piedi, incurante della punta di dolore che ancora gli fa tremare le ginocchia, e si fionda verso la porta, rosso d'imbarazzo.
"Impara a bussare, stupida!"
La ragazza fa appena in tempo a scostarsi dallo stipite, prima che Baze le sbatta la porta in faccia chiudendola fuori definitivamente.
Per diversi istanti c'è solo il rumore affannato del suo respiro a disturbare il silenzio.
Poi, come a dare il segnale che il tempo può tornare a scorrere senza impedimenti, la voce di sua sorella ovattata dall'altro lato della porta. "Ok, ok, ti lascio alle tue cose da uomini!", a voce abbastanza alta perché lui possa sentirlo, poi, poco più di un bisbiglio confuso con il rumore di passi incerti che si allontanano. "Certo che crescono in fretta di questi giorni..."
Quando il silenzio, surreale, torna ad avvolgere ogni cosa, si volta con le spalle alla porta, abbandona la schiena contro la sua superficie e infine si lascia scivolare seduto a terra, affidandosi alla forza di gravità. La stanchezza si impossessa del suo corpo agitato prima ancora che possa razionalizzare quello che è successo e sicuramente, se il sonno non lo cogliesse immediatamente, si direbbe che è molto meglio così.
Passano tre giorni prima che si incontrino di nuovo, e per tre giorni Baze riesce a deviare ogni pensiero altrove.
Pensa al lavoro, agli amici - fra loro non ne fanno più parola, come si fa con gli scherzi di poco conto che vengono dimenticati in fretta - ai battibecchi con sua sorella e a tutte le cose banali che riempivano le sue giornate prima che quello stupido bambino cieco - presunto cieco - arrivasse a scardinare la sua normalità per riempirla di dubbi e preoccupazioni che non ha mai chiesto di avere.
Al terzo giorno, però, Baze è costretto a farci i conti di nuovo.
Lo scorge per caso, con la coda dell'occhio, a lato di una delle strade del distretto commerciale. Intento a ripetersi come una cantilena, uno ad uno, tutti i pezzi di ricambio che gli ha chiesto di recuperare suo padre, quasi rischia di non accorgersi nemmeno della sua figura minuta e china, con le testa ciondolante in avanti, accovacciata sopra ad una cassa di legno abbandonata fuori da uno dei tanti magazzini.
Si ferma, come richiamato dalla scia di un'impressione che balena per un istante all'estremità del suo campo. Si ferma e si volta, sbattendo le ciglia, e poi finalmente lo scorge. Non c'è fastidio, né la rabbia agitata che tutte le altre volte gli montava in petto nel vederlo così accovacciato su se stesso, eppure Baze, questa volta, non sembra fare granché caso all'impulso che gli suggerisce l'animo. Al contrario, senza nemmeno pensarci, dimentica la propria meta e vira nella sua direzione, senza riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione di qualcosa che non va, nella sua figura - qualcosa di diverso, fuori posto.
Non ha bisogno di perdersi in complicate congetture: non appena gli si para davanti, riesce a comprendere esattamente cosa gli era sembrato tanto strano, appena qualche passo più indietro. Abbandonati fra le mani, come cocci rotti di un porcellana preziosa, il ragazzino tiene i due pezzi separati del proprio bastone, sfilacciati nel mezzo. Spezzati.
"Ehi," lo chiama Baze. Non sa bene perché, né che cosa dovrebbe dirgli, ma al momento sente di volersi concedere una tregua.
Il bambino non si accorge subito di lui, chino com'è a contemplare quel che rimane del suo bastone - o meglio, a contemplarne un'idea, ormai svanita, spezzata anch'essa.
Chissà cosa sta succedendo nella sua testa, si sorprende a domandarsi Baze, e poi, "Ehi!" lo chiama di nuovo, questa volta un po' più forte, chinandosi in avanti perché la sua voce lo raggiunga da più vicino. E il bambino quasi sussulta, colto alla sprovvista, sollevando il capo senza direzione e perdendosi gli occhi nel vuoto.
"Dice a me?" Domanda, con occhi confusi, come chi si è appena svegliato da un lungo sogno e ha bisogno di un attimo per riaggiustarsi alla realtà.
"E a chi altro?" Domanda Baze, schioccando la lingua sul palato.
Ascoltando la sua voce, il bambino sembra immediatamente irrigidirsi. "Sei il ragazzo dell'altro giorno?" Come d'istinto stringe le dita attorno ai due pezzi di bastone - per qualche motivo, sembra che nemmeno in queste condizioni riesca a separarsi dall'idea di appiglio sicuro che ha imposto loro - e li avvicina al petto, premendo le labbra nella stessa espressione sulla difensiva che gli ha restituito qualche giorno fa, nel vialetto sul retro.
"Sono io," risponde. "Baze. Mi chiamo Baze."
Il ragazzino non risponde. Questa volta, però, Baze sospira e basta, nemmeno troppo spazientito.
"Che è successo?" Gli domanda - ma subito si accorge che non è questa la risposta ovvia che vuole avere, e si corregge. "Chi è stato?"
Il bambino aggrotta la fronte. "Pensavo lo sapessi," gli dice.
"Perché dovrei saperlo?"
"Avevo immaginato ci fossi anche tu, con loro."
Baze solleva le sopracciglia, decisamente sorpreso dalla sua supposizione. Dannazione, è questa l'idea che gli altri hanno di lui...?
"No che non ero con loro!" Si affretta a ribattere, e poi gli torna in mente il vicolo buio, questo stesso ragazzino con le ginocchia a terra, le mani ricoperte di sabbia ed il viso quasi in lacrime. Si sente così stupido e meschino, adesso. "Loro chi?" Aggiunge, per riempire il vuoto di silenzio. E forse perché gli dà l'impressione di poter rimediare, in qualche modo - di cucire una toppa su uno strappo grossolano, del tutto evitabile.
Il bambino stringe le labbra. "Che ne so, non posso vedere!" Le parti si sono invertite, e oggi è lui quello in preda alla rabbia.
"E allora perché sei arrabbiato con me?"
L'altro stringe le spalle.
"Non sono arrabbiato con te."
"Sembri molto arrabbiato."
"Non lo sono," gli risponde seccamente. Poi, più docilmente, aggiunge, "Non con te."
Baze sospira. Improvvisamente gli appare del tutto assurdo il pensiero che abbia potuto considerare tanta malizia dietro alle sue azioni, dietro ogni sua intenzione. Lo guarda, ora, e rivede quella bestiola spaurita e in cerca d'attenzioni che gli era parso di scorgere qualche giorno fa, un'idea che allora aveva rigettato con tutto sé stesso. Non gli dà più fastidio, ora, ma nemmeno gli suscita particolare simpatia. E' solo un bambino, niente di più semplice. Non riesce neanche a ricordare che cosa, in lui, l'abbia fatto scattare tanto sulla difensiva la prima volta.
"Senti, io mi sono presentato, potresti almeno dirmi come ti chiami."
L'altro esita, quasi sospettoso, ma poi, "Chirrut," risponde. Non smette di stringere il suo bastone spezzato.
"E dov'è che abiti, Chirrut?"
"Non ce l'ho una casa. Una vecchia signora mi lascia passare la notte in una stanzino abbandonato nel retro di un tempio nella città nuova, a volte mi dà delle monete per comprarmi da mangiare. Suo figlio è il guardiano del tempio, ma non ci parlo spesso."
Un orfano, pensa Baze. Accantona il pensiero immediatamente.
"Che tempio è?" Gli chiede. Glielo legge negli occhi che tutte queste domande lo rendono diffidente, eppure lui continua a rispondere. Probabilmente è l'unica alternativa che gli è rimasta.
"Oltre il mercato," gli dice. "Nel distretto nord. Accanto al Bazar delle Meraviglie, così lo chiama la signora. Si sentono spesso stranieri passare da lì."
Il Bazar della Meraviglie. Baze lo conosce bene, come qualunque altro residente della zona che non abbia vissuto segregato in casa per gli ultimi dieci anni - e anche così sarebbe piuttosto plausibile che dicerie e storie su quel luogo magico siano in qualche modo giunte alle sue orecchie, insinuandosi oltre i muri dal vociferare concitato delle strade di NiJedha. Il Bazar, ovviamente, tiene testa al suo nome. Nei suoi meandri, fra gli intrecci di corsie strette ed affollate, è possibile trovare l'impossibile, se lo si sa cercare con occhi svegli ed il giusto fiuto per gli affari. Animali esotici, i più raffinati tessuti d'importazione, cibi dall'aspetto invitante ed altri decisamente meno, provenienti da pianeti dai nomi impronunciabili, inestimabili tesori oppure vecchie cianfrusaglie, suoni, odori, colori e, naturalmente, le più svariate specialità di NiJedha - non è un caso che il ragazzino si sia accorto della massiccia presenza di stranieri. Il Bazar, probabilmente, rappresenta la meta turistica più popolare dopo il Tempio dei Kyber.
"Mh. Da quella parte, allora," Baze allunga un'occhiata alla strada che si snoda verso nord, quindi riporta gli occhi sul ragazzino. "Ci sai tornare?"
Lo vede esitare, arricciando le labbra in un'espressione che tradisce uno scetticismo che pure decide di tenersi per sé. Una qualche forma d'orgoglio, immagina Baze. Tutto sommato non si sente di giudicarlo per questo.
"Credo di sì," gli risponde il ragazzino.
"Bene," sospira Baze. "Dovrai fare senza quelli." Non indica i due rimasugli del suo bastone, non ne ha bisogno. Il bambino si limita a stringere le spalle, eppure li tiene stretti fra le dita, senza lasciarli andare.
"Allora ci vediamo, immagino," gli dice solamente, prima di spingersi giù dalla cassa di legno, atterrando con i piedi sulla sabbia sottile. Baze non dice niente, e l'altro non rimane ad attendere risposta. Si avvia verso nord con passo incerto, un bastone in ciascuna mano, le braccia leggermente protese in avanti in anticipazione di possibili - probabili - ostacoli.
Baze lo osserva barcollare per un po', quindi socchiude gli occhi e sospira. Non arriverà mai a casa, di questo passo.
Non è la stessa cosa, senza il suo bastone. Chirrut era convinto di potersela cavare in qualche modo, di riuscire a compensare una mancanza così fondamentale con un sostituto altrettanto efficacie - forza di volontà, magari, quella non gli è mai mancata in fondo, oppure fortuna, sfacciata fortuna, qualcosa di cui invece non ha mai potuto vantarsi di godere in abbondanza.
Né l'una né l'altra sono abbastanza, e Chirrut avanza senza avere idea di dove finirà il suo prossimo passo, o di dove lo condurrà l'ultimo. Di là, gli ha detto il ragazzo che si chiama Baze, ma lui non ha la più pallida idea di cosa significhi 'di là' - di dove sia là, rispetto a qua, quanto distante, quanto difficile da raggiungere, quanto tortuosa o serpeggiante la via, e cosa significa serpeggiante - lui nemmeno l'ha mai visto un serpente, non può sapere che aspetto abbia, solo immaginarne il verso, figurarsi indovinare come possa apparire una strada che gli assomiglia.
Eppure continua ad avanzare, ostinato - farlo è più facile quando si riempie la testa di pensieri, e comunque non ha alternativa se non vuole passare la notte sotto le stelle. Di nuovo.
C'è, però, un dettaglio che lo disturba più di tutto il resto - più dell'incertezza, più del non avere idea di quale sia la direzione, persino più dei frammenti del bastone da guida che stringe testardo fra le mani. Quel dettaglio porta il nome di Baze, e lo segue nella forma di un paio di passi trascinati e pesanti che non sembrano per nulla intenzionati a lasciarlo solo. Chirrut se n'è accorto quasi subito: il ragazzo ha preso a marciare al suo fianco poco dopo che lui ha iniziato ad incamminarsi, e da allora non si è mai allontanato, né ha fatto cenno di annunciare la propria presenza. Semplicemente se ne sta lì in silenzio, con quel suo incedere ormai inevitabilmente famigliare, e Chirrut sta decisamente iniziando a perdere la pazienza.
Se ha voglia di prendersi gioco di lui ridendo alle sue spalle, che lo dica e basta. Ne ha abbastanza dei tipi arroganti e prepotenti che si sentono in diritto di fare di lui ciò che vogliono.
"Sei ancora qui?" Gli domanda a un certo punto - o meglio, lo domanda al vuoto che ha di fronte. C'è una pausa di silenzio, ma qualcosa nel ritmo dei passi di Baze si interrompe. Sorpresa, forse. Davvero era convinto che non se ne sarebbe accorto?
Poco dopo, lo sente schiarirsi la gola.
"Sono l'unico motivo per cui non sei finito in un fosso," gli dice, ma suona quasi costruito, improvvisato in un attimo di esitazione. "O contro qualcuno," aggiunge poi, "o dentro la porta di uno sconosciuto," come se si stesse inventando pezzi mano a mano. Come se dovesse giustificarsi.
"Quindi ora ci credi, che sono cieco," ribatte seccamente Chirrut - suona più irritato di quanto avrebbe voluto.
C'è un'altra pausa.
"No. Cammini troppo bene per essere cieco," gli sente dire. Chirrut gli scoppierebbe a ridere in faccia, se solo lo trovasse davvero divertente.
"Hai appena detto che senza di te sarei finito in un fosso," gli risponde invece. Perché si ostina a dargli corda, quando dovrebbe solo lasciarlo perdere, fingere che non esista e continuare per la propria strada?
"Questo perché sei furbo, e fai finta di sbagliare per farmi credere che non ci vedi. Ma io sono più furbo di te."
Questa volta Chirrut non riesce a trattenerla, un'espressione a metà fra il confuso ed il sinceramente incredulo. "Ma che razza di scherzo sarebbe?!" Alza appena la voce. "Perché dovrei fare tutta questa fatica solo per prendere in giro uno come te?"
"Uno come me? Cosa vorresti dire?!"
Chirrut scrolla le spalle, con la fronte corrucciata.
"Sei stato tu ad attaccar briga la prima volta," gli ricorda.
"Perché mi dai sui nervi," è la risposta, prontissima - fin troppo. Chirrut si volta verso la direzione della voce. Per la prima volta si sorprende a domandarsi che aspetto abbia, il ragazzo che gli sta parlando.
"Ma io non ti ho fatto niente," gli dice.
"Sbuchi sempre quando meno me l'aspetto."
"Potrei dire lo stesso di te. Tipo l'altro giorno. Tipo oggi."
C'è un momento di silenzio che si stiracchia fra di loro, in cui Baze smette di rispondergli, finalmente a corto di argomenti. Chirrut sospira - per un istante si domanda se non abbia anche smesso di seguirlo, ma gli basta concentrarsi sul rumore di passi che continua imperterrito ad affiancarlo per confermarsi che non è questo il caso.
Il silenzio, però, inizia a farsi pesante, come un vuoto fastidioso dove fino a poco fa c'era sostanza, dove c'era rumore e pensiero a distoglierlo dalle mille incertezze del proprio incedere. Si sente traballare di nuovo, esitare, rallentare. Ha bisogno di riempirlo, questo spazio fatto d'assenza.
"Perché hai smesso di parlare?" Gli chiede. E' la prima domanda che gli viene in mente, la più semplice. Forse suona strana, pensa immediatamente.
"Che cosa vuoi dire?" Gli chiede Baze.
"Era più facile quando seguivo la tua voce."
La risposta gli scivola dalle labbra prima che lui abbia deciso davvero cosa dire. E' la verità. E non è così male come verità, si trova a pensare.
"In ogni caso," tossicchia Baze interi attimi di silenzio più tardi. "Siamo arrivati, credo. È questo il posto?"
Chirrut rizza le orecchie, quasi sorpreso. Era talmente preso dai suoi pensieri - dalla voce di questo ragazzo di cui conosce appena il nome - da non essersi nemmeno accorto dell'ingrandirsi e dell'espandersi progressivo di voci e dialetti che li hanno guidati fino a qui - fino a casa. Improvvisamente tutto di nuovo ha un suono familiare - gli schiamazzi, il brusio incontrollato, il rumore di passi che si affrettano da ogni direzione, attirati dalle mille meraviglie del Bazar. Non c'è dubbio, sono nel posto giusto.
Avanza giusto un paio di passi, reggendo entrambi i bastoni con una mano ed allunga la gemella nel vuoto. Non è vuoto, però, e lui lo sa bene. Non gli ci vuole molto per incontrare ciò che cerca: la superficie intarsiata e irregolare della porta del tempio. Lascia scivolare le dita sul legno, percorrendo disegni e decori che non sarebbe capace di ricondurre a nessuna forma particolare, eppure da soli significano casa. Significato un tetto sulla testa, un pasto per sfamarsi - a volte, quando è la giornata giusta, persino un gesto d'affetto, un bacio silenzioso sulla fronte, una carezza.
Baze rimane in silenzio per tutto il tempo. Non è nemmeno sicuro che si trovi ancora qui - non fino a quando non lo sente aprire bocca di nuovo, almeno.
"Allora, ci siamo?" Gli domanda. Non sembra spazientito, però c'è comunque un pizzico d'urgenza della sua voce. Come se volesse trovarsi ovunque al posto che qui.
Chirrut non ci fa troppo caso. Invece sogghigna piano, trascinando le mani via dalla porta e voltandosi verso la voce del ragazzo. "Accidenti, che precisione," lo sbeffeggia. "Non è che mi hai seguito fino a casa altre volte?"
"Eh!?" Gli fa Baze, con tono mezzo incredulo, quasi sconvolto. Gli ci vuole un attimo per mettere insieme una risposta. "Non ti montare la testa, scemo," è l'ultima cosa che gli dice, prima che Chirrut, senza avere il tempo di rispondergli, si ritrovi ad ascoltare i suoi passi affrettarsi via, lontano, verso la direzione dalla quale sono arrivati, prima di confondersi definitivamente in mezzo alla marea di mille rumori diversi che straripano dalle strade del Bazar.
E' scappato via, per la seconda volta. Dev'essere così che funziona fra la gente, si ritrova a pensare Chirrut. Che cosa ne può sapere lui, in fondo? Non ha mai avuto un amico prima d'ora.
Baze arriva a casa che sta ancora correndo, con una fitta all'altezza della milza ed il fiato incastrato in gola.
Entra in fretta e furia dalla porticina sul retro, quella che dà accesso direttamente alla bottega. Come ogni volta, sente la voce di sua sorella dargli il bentornato dal piano di sopra, ma non ha tempo di farci caso né di rispondere. Si fionda invece nel laboratorio di suo padre, uno stanzino rettangolare simile ad un piccolo garage, stipato di pezzi di ricambio per elettronica, materiali da lavorazione e attrezzi da lavoro di ogni forma e dimensione.
Ha bisogno di scavalcare qualche cassa di legno ed un paio di pezzi di ferraglia abbandonati a terra, ma alla fine riesce a scorgerlo, suo padre, chino sul proprio tavolo da lavoro, il viso coperto dalla maschera protettiva mentre è intento a martellare con vigore un pezzo di lamiera.
"Hai trovato tutto?" Gli chiede l'uomo, senza nemmeno aver bisogno di alzare gli occhi dal tavolo. La sua voce, energetica e grave, riesce a imporsi senza problemi sopra ai battiti incalzanti scanditi da ogni colpo di martello.
"Sì," gli risponde Baze - stava quasi per dimenticarsi della lista di suo padre, correndo verso casa, e ha dovuto ripercorrere un pezzo di strada all'indietro per fare tappa al mercato ed evitarsi così un'ennesima strigliata. "Ti lascio la roba qui," abbandona la borsa su un ripiano, nel poco spazio libero che rimane intoccato dal disordine generale.
"Bene," ribatte suo padre. E' sempre stato un uomo di poche parole, ancora di più dopo che è morta la mamma.
Baze si avvicina. Qualsiasi altro giorno l'avrebbe già lasciato al suo lavoro, evitando di disturbarlo oltre. Oggi però è diverso. Probabilmente per lo stesso motivo per cui è arrivato fino a casa correndo.
"Senti..." cerca di richiamare la sua attenzione, sonda il terreno.
C'è una pausa di silenzio, interrotta da un'ennesima martellata. Baze si morde il labbro, convinto di non essere stato udito, ma poi il padre si ferma per un attimo. "Mh?" Suona quasi come un grugnito. Suona esattamente come lui.
Baze prende coraggio e glielo domanda.
"Vorrei prendere in prestito qualche pezzo che non ti serve, roba di scarto, e magari anche un paio di attrezzi. Così mi esercito un po' con la lavorazione, no?" Una bugia a fin di bene. "Niente di difficile. Te li riporto subito, prometto di non rompere niente."
Suo padre sembra pensarci un attimo, però poi si lascia sfuggire un sospiro. "Solo pezzi di scarto," gli dice.
"Certo," le labbra di Baze si allargano in un sorriso ampio.
"E non prendere gli attrezzi che sono già fuori, quelli mi servono."
"Ricevuto."
"Oh, e Baze," lo richiama, mentre lui, in preda all'entusiasmo, si è già fiondato a rovistare fra la ferraglia vecchia. Si volta sfarfallando le ciglia. "Se ti parte una mano perché non hai ancora imparato a usare quei dannati attrezzi, non venire a piangere da me."
Baze gli restituisce un sorriso innocente. "Non avere così poca fiducia nelle tue doti di insegnante, papà," gli dice. Non può vederlo, ma si immagina che anche l'uomo, nascosto dietro la sua tuta da lavoro, la maschera e quel fare un po' burbero e scostante, stia sorridendo un poco a sua volta.
Non ha idea del perché lo stia facendo, né di come sia arrivato a questo punto.
L'unica cosa di cui Baze è consapevole, in questo momento, è che nei giorni scorsi gli era apparso tutto così giusto, così naturale, che nemmeno per un istante si era soffermato a domandarsi quale fosse la ragione dietro una decisione così avventata, eppure allo stesso tempo così apparentemente ovvia. Non ha avuto bisogno di costruirsi scuse né di trovare una logica, gli era sembrata solo la naturale conclusione di tutto quello che gli è successo ultimamente - dei dubbi, dei sospetti, degli sbagli, delle sorprese più o meno piacevoli.
Adesso, però, seduto alla base delle gradinate che conducono all'ingresso del Bazar delle Meraviglie, contemplando il cielo nitido che solo da pochi minuti ha iniziato a schiarirsi dal buio della notte, qualche dubbio piccolo e discreto inizia ad affiorare alla sua coscienza, nella forma di una strana elettricità che gli vibra nel petto, un'ansia che non riesce a collocare.
La piazza, ancora avvolta nel silenzio, assume un aspetto surreale, riuscendo quasi ad amplificare i pensieri e le sensazioni, a renderli più vividi, meno scansabili.
Forse non avrebbe dovuto uscire di casa così presto, pensa - sì, forse è questa la causa della sua angoscia. Ansia da anticipazione. Però perché dovrebbe averne? Perché adesso? Perché all'improvviso?
E' proprio mentre si sforza di trovare risposte che le porte del tempio, con un tempismo decisamente provvidenziale, iniziano a trascinarsi sul lastricato, lentamente, con un suono quasi incerto, precario. Baze solleva il capo e le osserva mentre si aprono, senza spalancarsi del tutto, lasciando visibile solo una fessura. Quando la figura del bambino emerge dallo spiraglio fra i due portoni, minuscola e sottilissima al loro cospetto, Baze scatta in piedi con il cuore in gola. Basta così poco a rendere tutto quanto concreto, reale - a dare una forma all'attesa e a fargli crescere in petto quella strana sensazione di non sapere esattamente come e perché sia giunto fin qui, ma di rendersi conto, almeno, che è esattamente quello che vuole.
In fondo, realizza, non ha bisogno di un perché. Ha dato retta alle sue intenzioni, e questo dovrebbe essere abbastanza.
Balza giù dal paio di gradini che lo dividono dalla piazza deserta, quindi percorre di corsa i metri che lo separano dal ragazzino, che sta avanzando con il suo solito incedere flemmatico. Non può fare a meno di notare il nuovo bastone che Chirrut tiene fra le mani e agita lungo la strada, intatto questa volta. E' un pezzo di legno grezzo, un ramo lungo e sottile, abbastanza robusto da servire allo scopo. Deve averlo raccolto da terra. Per un attimo gli fa rabbia pensare che abbia dovuto accontentarsi di uno strumento così grossolano per tutti questi giorni, ma in fondo è anche per questo che Baze si trova qui, quindi ingoia l'amaro e percorre gli ultimi metri che lo separano da lui a passo più lento, fino a fermarsi.
Chirrut sembra accorgersi del movimento, e solleva il capo puntando gli occhi opachi in avanti, verso la fonte del rumore.
"Buongiorno," esordisce Baze. L'altro sfarfalla le ciglia, sorpreso, quindi il più grande si affretta ad aggiungere, "Sono io. Baze," sperando che si ricordi di lui (che pensiero stupido, è ovvio che si ricordi di lui dopo quello che gli ha fatto, si rimprovera).
"Lo sento," gli risponde Chirrut, con espressione ancora vagamente confusa. Poi, però, distende appena le labbra, allungandole verso le guance. "Ricordami chi era quello che sbucava dal nulla quando meno te l'aspetti."
Baze sbuffa piano, eppure gli restituisce un sorriso. "Colpevole," ammette. "Ma solo questa volta! E per una buona ragione."
Il viso di Chirrut si fa attento, la sua espressione curiosa.
"Devo preoccuparmi?" Gli chiede, ma non sembra crederlo davvero.
Baze scuote il capo. Si ricorda solo dopo che Chirrut non può vederlo.
"Spero di no. Credo che ti piacerà."
Chirrut schiude le labbra, sembra voler dire qualcosa, poi si blocca. Sposta il peso da un piede all'altro, un gesto nervoso, quindi ritira il bastone nella sua ormai familiare posizione di riposo, con l'asta di legno parallela al corpo, l'estremità superiore chiusa nei pugni delle due mani e quella inferiore impuntata a terra, di fronte alla punta dei piedi. Baze lo osserva aggrottare la fronte, incerto su come reagire. Si ritrova a sorridere appena, divertito, mentre lo scruta.
"Di che si tratta?" Gli chiede, e il modo in cui si mordicchia le labbra tradisce la curiosità sfacciata che sta tentando invano di tenere a bada.
"Ora lo scopri."
"Non mi chiederai di chiudere gli occhi, spero," scherza, e Baze fa eco con una risata sottile, contenuta.
"Prima ho bisogno che mi dai questo," gli dice. Prima ancora che Chirrut possa aggrottare la fronte con espressione interrogativa, Baze allunga una mano toccando gentilmente il bastone che l'altro stringe, smuovendolo appena, per fargli capire.
"Oh no," interrompe immediatamente Chirrut, "Questo non lo mollo," se lo stringe contro il petto, irremovibile.
Baze, però, non demorde. Aveva già messo in conto anche questo.
"Te l'ho detto, è per una buona ragione," insiste. "Fidati solo per un attimo, ok? Parola di..." si sofferma a pensarci solo per qualche istante. Non è così difficile trovare la parola giusta, in fondo. "Parola di amico."
Qualcosa, nell'ostinazione di Chirrut, sembra interrompersi. Come se crollassero improvvisamente tutte le sue difese. "Amico?" Ripete, quasi soppesandone il suono della parola ed il suo sapore sulla lingua, contro il palato, come si fa con i cibi esotici, sconosciuti, con la stessa curiosità un po' sospettosa, ma in fondo ben disposta. "Non ho amici," gli dice, stringendo le spalle.
Baze non è sorpreso.
"Da adesso ne hai uno," ribatte, senza esitazione. "Avanti," lo esorta poi, picchiettando di nuovo sul bastone.
Chirrut stringe le labbra. "Sarà meglio che tu non faccia scherzi, capito?"
"Niente scherzi," gli assicura, e intanto lascia scivolare le dita attorno al bastone, appena sotto le mani del bambino. "Promesso." Lo stringe con decisione.
"D'accordo," cede infine Chirrut. Lentamente, esitando, allarga le dita e lascia la presa, ed il bastone rimane in mano a Baze.
"Questo non ti servirà più," gli dice Baze, e lo lascia cadere a terra, dove dovrebbe stare.
Il rumore allarma immediatamente Chirrut, come la concretizzazione del suo peggior timore. "Cosa?!"
"Tranquillo," lo interrompe immediatamente Baze, la voce distesa, tranquilla. "Fidati, ti ho detto."
E in effetti, dopo un attimo di incertezza, Chirrut sembra calmarsi e fidarsi davvero - o almeno provarci.
Baza abbassa gli occhi sulle sue mani. Sono piccole, ancora semi aperte, sospese davanti a lui, come in attesa di qualcosa. Non lo lascia aspettare. Allunga le proprie, di mani, in cui stringe l'oggetto che si è spinto fino a qui per portargli, e lo spinge contro quelle del ragazzino.
Chirrut immediatamente tentenna. Ritrae le dita come scottato, colto alla sprovvista da un contatto inatteso. Poi però ci riprova - le sporge di nuovo in avanti, i palmi aperti, distesi, pronti a ricevere.
E Baze lo spinge fra le sue mani, affidandoglielo finalmente, il nuovo bastone che ha costruito per lui. "Tieni," gli dice. E' come togliersi un peso dal petto. Si sente leggero. E' una bella sensazione. "E' tuo."
Chirrut, in un primo momento, non sembra capire. Ha la fronte aggrottata ed il corpo rigido, come allerta, eppure dopo qualche istante d'incertezza le sue dita iniziano a muoversi, ad esplorare, guadagnando centimetro per un centimetro nuova consapevolezza.
L'asta, che non è più un bastone, è lunga e sottile, metallica. Chirrut la percorre tutta quanta lasciandoci scorrere sopra le mani, scavalcando le imperfezioni, soffermandosi sui piccoli dislivelli, sulle irregolarità, come a studiarle una ad una per trovarci una forma immaginaria, che vuole imprimersi nella mente.
"Sono pezzi di scarto che ho preso dalla bottega di mio padre," gli spiega Baze. "Li ho saldati assieme e levigati. Ecco, guarda qui," gli prende le mani, e Chirrut si lascia guidare. Gliele sposta in alto, sull'estremità superiore dell'asta che non era ancora arrivato ad esplorare, dove la superficie metallica è avvolta da uno strato di pelle morbida intrecciata. "Così dovrebbe essere più comodo."
Il viso di Chirrut si illumina di un sorriso ampio e pieno di meraviglia che s'allunga da guancia a guancia. A vederlo così, Baze non riesce a trattenere un sorriso gemello al suo.
"L'hai fatto per me?" Lo sente esclamare con quella sua voce acuta da bambino, quasi strozzata dall'entusiasmo.
"Be', sì," borbotta Baze, con le guance appena arrossate. Per un istante è contento che l'altro non possa vederlo.
"Grazie!" ribatte il bambino, luminoso come un raggio di sole. "E' leggerissimo," fa un passo indietro e solleva le braccia, fendendo l'aria con l'asta - Baze impreca fra i denti, costretto ad accovacciarsi repentinamente per scansarne il colpo. "E robusto!"
"Ed è tuo," conclude Baze per lui, raddrizzando la schiena.
Chirrut annuisce, riportando il bastone a terra, rigirandoselo fra le mani con un sorriso che gli rimane ancora sospeso fra le labbra. "Grazie davvero, Baze," gli dice.
Baze sorride piano. Eccola, pensa, la motivazione che stava cercando: questo grazie, questo sorriso. La felicità che gli fa brillare il viso. La felicità di un amico, limpida e semplice.
"Immagino che farò finta di crederti, per adesso," gli dice.
Chirrut solleva gli occhi. Baze sa che non può vederlo, ma sa anche che in qualche modo i suoi occhi lo stanno cercando, allo stesso modo del sorriso che gli rivolge.
"Allora continuerò a far finta di non vederci anche io," è la sua risposta, e Baze non sa perché l'abbia fatto, né di come siano arrivati a questo punto, ma decide che non è davvero importante - decide che è tutto già perfetto così.
Diversi anni dopo…
Dalla cima delle scalinate del Tempio dei Kyber si può ammirare NiJedha in tutta la sua interezza, nella sua meravigliosa varietà di forme e colori, e oltre le mura di NiJedha il deserto sconfinato, spennellate di rosso che si stagliano contro l'orizzonte sfumando verso di esso. Il confine fra terra e cielo, a quest'ora della sera, si fa confuso e quasi insignificante.
Dopo tutti questi anni Baze è ancora qui, legato a questa città e alla sua gente. Suo padre non c'è più, e nemmeno sua sorella. L'Impero glieli ha portati via entrambi, come ha portato via tutto il resto. A lui rimane un vuoto nel petto, una fede che inizia a vacillare, e l'unico amico che non abbia mai perso.
Si volta, e Chirrut è sempre lì, al suo fianco, dove si aspetta ogni volta che sia. Contempla anche lui il cielo, il deserto, la città. Baze sa che quei suoi occhi possono vedere meglio di quelli di chiunque altro, solo in un modo diverso.
"Sei pensieroso," gli fa notare Baze. Ultimamente capita spesso. Chirrut si è fatto più taciturno negli anni, più assorto, meditativo. Non è più il ragazzino ostinato e spaurito che ha incontrato fra le strade di questa stessa città ormai quella che sembra un'intera vita fa. E in fondo, Baze ne è consapevole, nemmeno lui è rimasto uguale ad allora. Si è indurito, si è fatto più cinico, più forte. Ha dovuto. Per tutti quanti è stato così.
"Capita di pensare molto quando il mondo è fatto di sola oscurità," gli risponde. Baze non è sicuro se stia parlando della sua cecità oppure dello stato attuale delle cose, ma decide di non indagare oltre.
Torna ad osservare il cielo imbrunirsi, la città piano piano spegnersi.
Passano diversi minuti prima che il silenzio venga interrotto di nuovo.
"Sai," inizia Chirrut. "Ho ritrovato una cosa," gli dice, tenendo il viso puntato avanti, proiettato oltre le mura della città.
Baze si volta verso di lui. "Che cosa?"
"Il mio vecchio bastone," risponde. "Quello che mi hai costruito tu."
Si distendono attimi di silenzio fra di loro. E' di nuovo Chirrut ad interromperlo.
"Ora è troppo corto perché io possa usarlo. Ma era davvero un buon bastone," distende appena le labbra.
Baze lo osserva senza dire nulla, riempiendosi solamente della sua presenza, della brezza leggerissima che tira sulla città, del silenzio. Della tranquillità di quest'attimo, questo singolo momento. Vorrebbe sprofondarci e rimanerci incastrato, dimenticare tutto il resto.
Sa bene che non è possibile.
"Non mi ricordo," mente.
Chirrut allunga un poco il sorriso.
"Io sì," gli dice. "Ricordo tutto."
Anche io, potrebbe rispondergli Baze, ma in fondo non ce n'è davvero bisogno. Lo sanno entrambi.
"Dovremmo rientrare. Fra poco scatterà il coprifuoco, e sai che non mi piace incrociare la feccia imperiale," lo dice con uno sbuffo, scostandosi dalla parete del tempio.
Chirrut annuisce.
"Hai ragione," dice solamente, allungando una mano verso di lui e posandola sul suo braccio. A volte lo fa, di cercarlo per lasciarsi guidare da lui. Baze non gli ha mai detto di no, e questa volta non fa eccezione. Al contrario, Baze si sporge, gli accarezza delicatamente una guancia, e poi posa le labbra sulle sue.
Nemmeno Chirrut ha mai detto di no a questo.
"Quel bastone," bisbiglia Baze sulla sua bocca. "Fammelo vedere, magari posso attaccarne un altro pezzo. In fondo erano solo rottami di scarto anche allora."
Chirrut sorride. Terribilmente vicino, terribilmente bello. E' l'unica cosa preziosa che gli sia rimasta, pensa Baze. L'unica che non saranno in grado di portargli via.
"D'accordo," soffia Chirrut.
Ed è come se dicesse Allora te lo ricordi anche tu.